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di quei pontefici che più al suo disegno si opponevano.
Conserva però sempre intera l autorità e rispetto verso il
ponteficato, significando in più luoghi che dall Italia,
per legge di Dio e merto della romana virtù, nasceano a
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Gian Vincenzo Gravina - Della ragion poetica
scorta e regolamento comune della religione, delle leggi
e dell armi due luminari: ponteficato ed imperio.
XIII.
Della morale e teologia di Dante
Ma tempo è già d entrare nel sentimento morale e
teologico di questo poema; qual sentimento, se io per le
sue parti volessi esporre, verrei sopra il solo Dante a
consumar interamente l opera mia. Onde intorno al tut-
to ed al fine generale unicamente ci volgeremo. E, come
ognun sa, diviso questo poema in tre cantiche, cioè
dell Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, i quali sono i
tre stati spirituali dopo morte, corrispondenti ai tre stati
della mortal vita, che il poeta anche ha voluto figurare
sotto i tre stati spirituali, i quali in questo poema fanno
l uffizio di verità e d immagine, cioè di significato e si-
gnificante: volendo Dante che dalla dottrina teologica
dei tre stati spirituali fusse significata ancora la scienza
morale dei tre stati temporali. Poiché, secondo la sua
specie e proporzione, la pena o premio che avviene
all uomo dopo morte dalla giustizia di Dio, avviene an-
cora per qualche parte anche in vita dal proprio vizio o
dalla virtù. Onde simile insegnamento si dà dalla filoso-
fia nella vita temporale, che ci porge la teologia nella vi-
ta spirituale. Perloché Dante nell inferno entrato, dopo
conosciute le pene d ogni vizio, passa nel purgatorio ed
osserva dei medesimi vizi il rimedio; donde poi, già pur-
gato e mondo, poggia alla beatitudine eterna ed al para-
diso. Col qual corso misterioso ci ha voluto anche svela-
re il viaggio d ogni anima in questa mortal vita, ove
ciascuno nascendo entra nell inferno, cioè nelle tenebre
del vizio, sì per il peccato originale d ognuno, che poi
per il battesimo si lava, sì per le reliquie della concupi-
scenza, che dopo il battesimo rimangono; le quali pro-
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pagandosi e distendendosi nella vita civile, ci assorbisco-
no e ci raggirano per entro un turbine di libidine, d am-
bizione, d avarizia e d altri vizi, dai quali il nostro mon-
do è in temporale inferno cangiato.
Imperocché siccome nell inferno è ad ogni vizio sta-
bilita la sua pena, così nel mondo ogni vizioso porta en-
tro la propria natura il suo supplicio: essendo la miseria
e l travaglio dell animo compagnia indivisibile d ogni
passione, la quale è dalla miseria seguitata come il corpo
dall ombra, ed assistita da lei anche in mezzo delle ric-
chezze e delle vittorie e dei trionfi ed acquisti di provin-
cie e regni intieri. Di tai pene il deforme aspetto, da
Dante nel suo Inferno scoperto, spira timore e spavento,
dal quale mosso l animo può disporsi alla fuga dei vizi e
passare allo stato di purgazione ed emenda, che il poeta
ci rappresenta nel Purgatorio, dove possiamo il rimedio
trovare coll operazioni nuove opposte all antiche viziose
e colla speranza della tranquillità ch entra nell animo
quando parte il vizio e cede il luogo alla virtù. Onde le
pene figurate da Dante nell Inferno tendono a recarci ti-
more, quelle figurate nel Purgatorio vengono a porgerci
il rimedio del male, poiché coll operazione opposta alla
viziosa possiamo l abito della virtù felicemente acquista-
re. A questo abito di virtù succede la tranquillità quan-
do è congiunta con la cognizion di Dio, da Dante sotto il
Paradiso figurata. Poiché, sorgendo noi alla contempla-
zione dell infinità divina, svelliamo l animo dai sensi
ch ai vizi ed ai travagli loro ci legano; e con astrarla dai
sensi escludiamo da lei l idee particolari e finite, le quali
perché non tiran l esser loro che dalla nostra fantasia,
sono l occasione di tutti gli errori e radici delle passioni,
alle quali van sempre maggiori molestie congiunte che
piaceri.
Or da questi viluppi la mente si scioglie, quando pe-
regrinando nel corpo abita nell infinito, poiché allora
scorgendo gli effetti da altre cagioni derivare che dalle
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apparenti, lascia d aspettare quel che non può giungere
e di temere quel che o sopra di noi non può pervenire o
noi fuggir non possiamo; e perciò per suo bene non ap-
prende se non quanto ella è resa capace di possedere
dall ordine divino delle cose, che alle passioni e forze
nostre non è lecito di variare. In qual maniera il moto er-
rante ed incerto della volontà è fermato dall intelletto
contento e pago della divina ed infinita idea, incontro a
cui tutte le create cose, e la stima in noi da loro impres-
sa, come ombra al sole spariscono, e con la partenza lo-
ro liberano l animo dal desiderio e travaglio; in modo
che si volge tutto a quel bene che non dall esterno soc-
corso dubbioso e fallace, ma dal proprio suo concetto e
dalla propria facoltà la mente a sé ritrae. E perché cia-
scuna potenza dell uomo ha per proprio oggetto un be-
ne dall altra potenza diverso e distinto, siccome veggia-
mo nei sensi, dei quali l uno di vedere, l altro di udire o
di odorare o di gustare si compiace, perciò la mente, la
quale è fonte della vita, in quanto concorre ed anima le
funzioni del corpo, anch ella ha per oggetto i medesimi
piaceri, ma in quanto senza mistura del corpo adopera
la propria facoltà, cioè l intelligenza, ella ha un oggetto
separato e distinto di bene, il quale è riposto nel cono-
scere, che è proprio ed unico del pensiero, il quale è atto
continuo e per niun punto separabile dall anima.
Onde, perché l esser dell uomo è costituito dalla
mente, parte di lui dominante e vivifica, perciò l oggetto
di bene all uomo più proprio ed alla sua natura più con-
veniente è la cognizione e la scienza. Di qual bene più
gode qualor si scioglie dalle idee particolari e limitate
dalla finita ed angusta capacità dei sensi corporei, e libe-
ro discorre per l universale, dilatando la conoscenza del
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